La luna e i falo'

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti
Cesare Pavese 1949



mercoledì 25 aprile 2012

Anna Maria Panzera: Caravaggio, Giordano Bruno e l'invisibile natura delle cose.

Il luogo comune parla del Rinascimento come dell'epoca in cui l'Uomo sostituisce Dio al centro dell'universo. Vero, ma un po' riduttivo. Come il Medioevo, periodo complesso e non semplice grande «buco nero» in 1000 anni di Storia, anche il Rinascimento non deve essere visto come un blocco monolitico e uniforme. Il mondo di Botticelli non è lo stesso di Michelangelo Buonarroti. Soprattutto il Cinquecento fu un secolo chiave, secolo di guerre e di violenza (nel 1527 i lanzichenecchi saccheggiano Roma), secolo di nuove teorie scientifiche (tra tutte quelle di Copernico). Nelle menti più audaci l'arte, ma anche la scienza, andavano già oltre l'umanesimo. Anche la prospettiva, che sembrava  poter permettere all'Uomo di controllare lo spazio, finiva per fare emergere i limiti della rappresentazione. L'universo di apriva, l'antropocentrismo mostrava i suoi limiti e le sue insufficienze per spiegare la realtà.
Giordano Bruno e Caravaggio sono tra coloro che vanno più lontano su questa via. Senz'altro troppo lontano e troppo presto per essere capiti dai loro contemporanei.

Anna Maria Panzera, storica dell'arte e collaboratrice di importanti istituzioni museali ha cominciato ad interessarsi ai rapporti tra l'opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio e quella di Giordano Bruno in una tesi di laurea, poi ampliata e pubblicata nel 1994. In questo nuovo saggio sviluppa e approfondisce la sua ricerca iniziata, dice l'autrice, nel concreto della materia, con lo studio della tecnica del pittore lombardo: partire da un fondo scuro per fare emergere l'immagine, dare sostanza all'ombra, rilevare il colore del nero.

Il filosofo e il pittore sono entrambi nella Roma della fine del Cinquecento ma per motivi ben diversi.
Dopo il pontificato di Giulio II, la città ha sostituito Firenze come capitale culturale della penisola. È là che Caravaggio arriva nel 1592 in cerca di committenti e di fama. L'anno seguente arriva il filosofo, e non di sua volontà: accusato di blasfemia e di eresia, è consegnato dall'inquisizione veneziana a quella romana. La sua teoria sull'infinità dei mondi non poteva essere accettata dalla gerarchia cattolica. Non si trattava solo di una diversa interpretazione dell'universo ma di una messa in discussione dei principi basilari della dottrina. Era Dio stesso ad essere scosso dal suo trono. Bruno uscirà dal carcere solo per salire sul rogo, nel 1600. Oggi una statua, eretta alla fine dell'Ottocento, in uno dei rari momenti in cui il potere politico italiano seppe affrancarsi dalla tutela vaticana, lo ricorda sulla piazza di Campo de' Fiori.

Vita inquieta anche quella del pittore, il cui carattere impetuoso gli procurò non pochi guai con la giustizia, fino all'ultima fuga, dopo l'ultima rissa conclusasi con la morte del suo avversario. Caravaggio, condannato alla decapitazione, scappò da Roma, verso Napoli, Malta, la Sicilia poi ancora Napoli fino a Porto Ercole dove le febbri intestinali lo fecero morire.
Anche lui, nel suo campo, era considerato un eretico. La sua pittura violava tutte le regole: regole di grazia e di moderazione, di bellezza e di decoro. Regole artistiche quindi, ma anche religiose. Il clima culturale nella città papale si era, dopo il Concilio di Trento, fortemente oscurato. Sotto l'egida del cardinale Carlo Borromeo la Controriforma aveva colpito ogni tentativo di allontanarsi dai dogmi. Ormai un'apposita commissione valutava la decenza delle rappresentazioni sacre e quelle di Caravaggio erano spesso fuorilegge: troppo volgari, troppo crude, poco rispettose dei soggetti rappresentati.

Quasi sicuramente Giordano Bruno e Michelangelo Merisi non si incontrarono mai. Chissà, forse Caravaggio era tra la folla che assistette al rogo del filosofo ma nulla lo può confermare. Il pittore poi non era, per utilizzare un anacronismo, un «intellettuale». Quando scappò da Roma il proprietario della casa in cui aveva abitato fece fare un inventario delle cose che aveva lasciato. Qualche studioso ha ipotizzato che tra i sei libri trovati ce ne fosse uno del filosofo, ma anche questo nessuno può confermarlo. Dal canto suo Giordano Bruno rinchiuso in carcere non poté certo vedere i quadri del pittore.
Il legame tra le teorie del filosofo e le opere di Caravaggio non è quindi da cercare nell'applicazione pratica di testi studiati a tavolino. Nonostante tutto però, nei quadri del pittore i richiami alla visione della realtà descritta da Bruno sono più che un semplice eco.
I personaggi rappresentati sono profondamente umani, troppo umani hanno detto i detrattori: tra tutti un esempio emblematico è quello della Morte della vergine: una giovane morta con il ventre gonfio, la pelle livida, i piedi scoperti fino alle caviglie; scandaloso e irriverente, realismo esacerbato prontamente rifiutato dai committenti.
Ma un artista che non sia solo artigiano, e questo già in Michelangelo Buonarroti era chiaro, non deve semplicemente copiare la realtà, deve sapere superarla, vedere al di là. Ed è così che le opere di Caravaggio non si fermano mai alla semplice rappresentazione naturalistica, esse scuotono la stabilità del soggetto e ne fanno emergere un altrove in cui il reale è superato. Così il canestro di frutta, dipinto tra il 1597 e il 1601, non è semplicemente una grande prova di tecnica pittorica. La capacità del pittore di riprodurre il più piccolo dettaglio, lo sfumato e la vivezza dei colori destano l'ammirazione. Ma poi, ad una seconda lettura del dipinto sorgono una serie di domande: perchè il canestro non è al centro del quadro? Sembra schiacciato dal lato in cui il peso delle frutta è meno forte. Cosa sono quelle foglie accartocciate? E quel ramo che sembra non avere appoggio? Ed ecco che l'immagine di ciò che è vero è superata da un altrove che non può essere circoscritto dalla razionalità.
Ed è qui il legame concreto con il pensiero di Giordano Bruno.
Il filosofo parte dall'osservazione del reale per superarlo. E non ha caso è per lui essenziale il ruolo che ha il linguaggio e soprattutto la poesia come lo sottolinea Anna Maria Panzieri: Al fine di vivere ed esprimere l'esperienza umana e filosofica, infatti, la poesia svolge una funzione essenziale: senza le potenzialità creative della poesia, senza la sua attitudine al superamento dei limiti razionali, l'intelletto si dimostra insufficiente a concepire il visibile e l'invisibile che fanno l'autenticità delle cose, di cui il linguaggio non dà i nomi, né compone con i segni astratti la sembianza che a loro corrisponde. Perché non sempre si può conoscere ciò che è vero, spesso si conosce prima l'immagine di ciò che è vero. E in questo la poesia è come la pittura, l'intelligenza come un pittore.*
È poi nella rappresentazione dell'ombra che la pittura di Caravaggio sembra esprimere più concretamente la sua coerenza con la lezione di Bruno. Quest'ultimo aveva sottolineato nei suoi scritti l'importanza dell'ombra capace, proprio nascondendo il reale, di farne emergere la sostanza. Nel trattamento delle ombre, Caravaggio rinnega radicalmente i codici artistici dei suoi predecessori e contemporanei. Così aveva scritto Leonardo: Il lume tagliato dalle ombre con troppa evidenza è sommamente biasimato da' pittori, onde, per fuggire tale inconveniente, se tu dipingi i corpi in campagna aperta, farai le figure non illuminate dal sole, ma fingerai alcuna qualità di nebbia o nuvoli trasparenti essere interposti infra l'obietto e il sole, onde, non essendo la figura del sole espedita, non saranno espediti i termini delle ombre co' termini de' lumi.**
Michelangelo Merisi imbocca la strada contraria. Poco a poco nei suoi dipinti i contrasti sono accentuati. Le fonti di luce si moltiplicano, le ombre portate diventato sempre più presenti, più nette, rompono l'armonia della composizione. Ma nello stesso tempo lasciano il pensiero vagare alla scoperta di mondi che sono al di là di quello apparente. Emerge una forma nuova, creata dall'invisibile che prevale, una forma che è là dove la luce non arriva, nell'ombra e nel buio.
Ed è su questa analisi che Anna Maria Panzera esprime una ipotesi per spiegarne il senso:
[...]non percezione ottica, semplice assenza di luce. Per lui, sull'orlo di sempre imminenti cadute e tenace nell'opporvisi, potrebbe significare l'intuizione e figurazione della spinta a scivolare in uno spazio di non-esistenza, agìta dall'esterno a sue spese, eppure riscattata irrazionalmente dall'artista nella creazione di un'immagine. Lo sentiremmo pronunciare le parole che furono di Bruno: «[...] è[...] la moltitudine che non mi contenta, una che m'innamora: quella che sono libero in suggettione, contento in pena, ricco nella necessitade et vivo ne la morte.»***

A. M. Panzera: Caravaggio, Giordano Bruno e l'invisibile natura delle cose.  
Ed. L'asino d'oro Roma 2011*p. 85
ibidem ** p. 126
ibidem *** p. 138

martedì 17 aprile 2012

Abbazia di San Giovanni in Venere (Ch)

Basta allontanarsi di qualche chilometro dalla costa di Fossacesia e dalla foce del Sangro per arrivare su questa collina, come un balcone sul mare.
Nello spazio è un viaggio breve, ma sufficiente ad allontanare d'un tratto il moderno cicalio del turismo di spiaggia; nel tempo si parte lontano, percorrendo e ritroso, almeno negli indizi e nei vocaboli, millenni di storia.
Un antico tempio consacrato a Venere Conciliatrice ha lasciato il nome all'abbazia benedettina che, già prima del VII secolo, ne occupò il sito. 
La tradizione ricorda un primo gruppo di monaci, tra i quali un certo Martino, proveniente dal cenacolo di Benedetto a Cassino o forse più semplicemente da uno dei tanti eremi della Maiella. Costruirono una chiesetta e un cellaio per abitazione. Vennero poi, dopo l'anno Mille, gli architetti cistercensi ad ingrandirli e a modificarli. 
Le vicissitudini del tempo e soprattutto il terremoto del 1627 avevano danneggiato gravemente la chiesa e il chiostro. Solo a partire dal 1965, quando i padri Passionisti ne presero possesso, si cominciò a ricostruire il convento e poi l'insieme del monumento.
Dedicata a san Giovanni, l'abbazia volge le spalle all'Adriatico e si apre su un fresco bosco mentre, sul lato opposto si affaccia su una campagna punteggiata di ulivi.
Il luogo appare solitario, solo qualche persona passeggia attorno alle mura.
Sulla facciata in mattoni spicca, attorno al portale, il marmo bianco dei gravi bassorilievi scolpiti con scene bibliche, nel XIII secolo.
Il chiostro si raccoglie attorno al suo giardino; interrompe la luce smagliante dell'estate rifiutando allo sguardo l'orizzonte che spazia lontano, per ricreare nell'ombra il luogo di raccoglimento e di meditazione. Solo le cime della piccola schiera di cipressi si agitano al vento che viene dal mare.

sabato 7 aprile 2012

Théodore Monod: Il viaggiatore delle dune

Scienziato, ittologo, naturalista, archeologo, filosofo, esploratore e soprattutto grande camminatore, Théodore Monod ha attraversato il ventesimo secolo a piedi, coniugando ricerca scientifica e ricerca filosofica. Sempre pronto a difendere i princìpi in cui credeva.
Il viaggiatore delle dune è forse il più conosciuto dei moltissimi libri che Monod ha scritto.
Méharées è il titolo originale. La parola è derivata da méhari che, nei paesi arabi, sta ad indicare un dromedario da corsa. È quindi un po' il corrispondente di cavalcata ma per un cammello; impossibile da tradurre in italiano.
Nel libro Monod racconta, con leggerezza e autoironia, la sua prima esperienza nel Sahara, le tappe, gli incontri, le scoperte, di un viaggio che poi è durato tutta una -lunga- vita.
Nato nel 1902 e morto nel 2000, non ha praticamente mai smesso di percorrere il deserto africano, a dorso di dromedario ma spesso a piedi anzi, volendo sempre camminare il più possibile, per chilometri e chilometri. Almeno due o tre ore di marcia, spesso molte di più. Dopo un buon numero di chilometri, cambio di veicolo: in sella.
Figlio e nipote di pastori protestanti, era destinato a seguire gli studi di teologia che lo avrebbero portato sui passi dei suoi predecessori. Ci racconta che furono forse le numerose visite nei giardini del museo di storia naturale di Parigi, dove, bambino, la madre lo portava spesso, a far nascere in lui la passione per le scienze naturali.
E fu così che Monod rinunciò alla teologia per la ricerca scientifica. Era piuttosto il mondo marino ad interessarlo. Ma poi, nell'oceano Atlantico, a largo della Mauritania, dove si trovava, inviato dai suoi professori, è affascinato dalla distesa di sabbia e pietre che confina con quella d'acqua.
La prima impressione è ambivalente: Sinistro paese. Il primo albero- una piccola acacia- è a quarantacinque chilometri da qui. La terra, pulita, scarnificata fino all'osso, polverizzata al soffio dei secoli, è morta. Il vento, che soffia sulle dune coronate da un leggero velo di polvere, canta un ciclo ormai compiuto e il riposo definitivo di un suolo che non conoscerà più la pioggia.
Un attimo di indecisione, tra l'oceano posseduto e quello desiderato poi finalmente l'autorizzazione gli è data: una carovana si dirige verso il Senegal, sarà la sua partenza per un'escursione infinita.
Abbandona l'oceano marino per l'altro.
Emblematico è il verso di Walt Withman che precede il racconto:"Imbarchiamoci anche noi, anima mia! Con gioia, lanciamoci sui mari senza piste!".
Théodore Monod descrive il paesaggio come uno scienziato: geografo, botanico, geologo, ma mai con pedanteria anzi prendendo un po' in giro l'attitudine saccente degli eruditi; racconta un mondo sconosciuto (negli anni trenta ampie regioni erano ancora inesplorate) e difficile, fatto di tappe interminabili tra punti d'acqua lontanissimi, giornate infuocate e notti di gelo ma lo fa con allegria, a volte quasi con spasso. Il suo è un viaggio nello spazio ma anche nel tempo, alla ricerca dei segni del passato, reperti di popoli scomparsi e di paesaggi preistorici. Cercherà per anni una meteorite alta più di quaranta metri che qualcuno aveva visto dalle parti di Chinguetti, nel Sahara occidentale: Un ufficiale racconta di aver raggiunto, in condizioni romanzesche, in segreto, di notte, accompagnato da un solo individuo (ormai morto purtroppo), il blocco di metallo enorme e misterioso del quale gli indigeni nasconderebbero accuratamente il luogo e anche l'esistenza.
È una vita ridotta all'essenziale, nella quale ogni oggetto deve essere veramente necessario per non diventare un inutile ingombro. E nell'essenziale il viaggiatore ritrova l'essenza della vita; si sbarazza poco a poco delle ultime inutilità consumeriste.
Appena l'oasi, le sue case, la sua vita facile e comoda,- pensate , un letto, del camembert, delle sedie, del pane!- saranno scomparse all'orizzonte, ricomincerà la vita selvaggia, elementare, brutale e spoglia quanto si vuole ma, bisogna riconoscerlo, perfettamente salubre.
Sempre «piacevole», no; sana, sì, e piena di insegnamenti per dei «civilizzati» che hanno finito con il confondere l'accessorio e l'essenziale, e con l'ingombrare la loro esistenza con una folla di elementi artificiali, di bisogni fattizi, di inutilità malsane che essi considerano ingenuamente come l'«indispensabile».
Théodore Monod diventa una sorta di asceta, rinuncia a molte cose ma mai alla curiosità per il mondo, all'osservazione scientifica e nemmeno agli interventi pubblici per difendere i principi in cui credeva: antimilitarista ma anche antinucleare, non violento, vegetariano, contro la vivisezione e la corrida. Ogni anno, ricordava con quattro giorni di digiuno le vittime delle bombe nucleari statunitensi su Hiroshima e Nagasaki.
Firma il manifesto per sostenere i 121 insubordinati durante la guerra d'Algeria.
Benché funzionario dello Stato, persisto a torto o a ragione, nel considerarmi come un uomo libero. D'altronde se ho venduto allo Stato una parte della mia attività cerebrale, non gli ho consegnato il cuore, né l'anima... Ed è rendere servizio a Cesare stesso il sapere a volte, guardandolo negli occhi, dirgli di no. Ciò può spingerlo a riflettere perché anche Cesare ha un'anima.
E quando il presidente Mitterrand nel 1988 lo invita alle celebrazioni per la festa nazionale del 14 luglio, Monod risponde così:
Signor Presidente,
La prego di scusarmi ma non potrò assistere al ricevimento del 14 luglio al quale lei mi ha invitato.
Continuo a sperare vivamente che verrà un giorno in cui la festa nazionale non sarà più solo militare e vedrà sfilare anche i tagliaboschi, i ferrovieri, i minatori, i maestri, gli infermieri, e non più solo gli uomini di guerra.
Nell'attesa di questi tempi nuovi in cui, inoltre, il ritornello del nostro inno nazionale non sarà più sanguinario e razzista, le porgo i miei distinti saluti.